Storia dell’eremo di San Michele tra architettura e natura
A cura di Vito Alessandro Cancellaro.
A cura di Vito Alessandro Cancellaro.
L’utilizzo delle grotte come luoghi di culto affascina da sempre per il rapporto che si va ad instaurare tra Architettura (uomo) e Natura (Dio). Infatti, diventa interessante studiare l’evoluzione del rispetto che l’uomo dimostra nei confronti della natura, con il passare dei secoli e con lo sviluppo della visione antropocentrica dell’architettura.
A partire dai primi popoli pagani che utilizzavano le grotte per il culto delle loro divinità , si può facilmente dedurre come questi non apportassero modifiche agli impianti originari delle cavità; al contrario con l’avvento del cristianesimo e con la pratica di determinate funzioni religiose, si iniziò a costruire e a modificare gli ambienti per adattarli agli usi e alle diverse funzioni. Si parte , quindi, da un’ architettura semplice e povera, volta alla sola chiusura degli ambienti, fino a giungere ad articolate modifiche, volte alla trasformazione delle cavità in pseudo-chiese.
A Padula l’impianto originario dell’ eremo di San Michele era molto probabilmente limitato alle due cavità con delle semplici occlusioni delle aperture. Analizzando la tipologia delle murature dell’eremo di Padula è possibile riscontrare numerosi blocchi squadrati e frammenti di elementi decorativi di spolia. E’ possibile quindi che le strutture del rifugio e della chiesa siano state realizzate in un periodo che va dal XI al XIV sec. utilizzando ,com’era prassi in quel periodo, i resti delle vicine costruzioni di Cosilinum, impiegati anche nelle fondazioni della Certosa. Inoltre, fino al 1962 nella cinta muraria dell’eremo, a destra del cancello d’ingresso era posta una stele funeraria, oggi conservata presso il Museo Archeologico Provinciale della Lucania Occidentale in Certosa, raffigurante una coppia di antichi cosilinati. La stele, rilevata nel 1962 dai tecnici del Museo, è datata nel periodo compreso tra l’età sillana e il terzo quarto del I sec. a.c., ed è stata inserita in un gruppo di altre lapidi rinvenute nel territorio di Padula di fattura simile. La presenza della stele nella cinta muraria dell’eremo testimonia il legame inevitabile tra la grotta e la vicina Cosilinum, e l’utilizzo del versante Sud-Est dell’antico colle come luogo di culto. Poco sopra la grotta sono tutt’ora visibili i resti di una costruzione, probabilmente una piccola torre, inserita nelle antiche mura di difesa di Cosilinum. L’attuale strada di accesso su questo versante è stata realizzata negli anni ottanta del XX sec.; fino ad allora la strada principale di accesso era quella proveniente dall’ antica Badia di San Nicola verso l’attuale abitato di Padula che attraversava le porte dell’ antica civitas di Cosilinum.
Negli ultimi anni è stato rinvenuto parte di un sentiero su muretti a secco realizzato lungo le pareti scoscese del lato sud-ovest del colle, che forse consentiva un più rapido raggiungimento dell’ eremo a chi proveniva da Sud , ossia dall’ antica Via Popilia e dalla Certosa attraverso l’antica “strettola delli monaci”. La vicinanza e il collegamento diretto all’antica arteria viaria ci aiutano a comprendere meglio il significato e l’iconografia degli affreschi realizzati nell’eremo tra il XIV sec. e il XV sec., i quali presentano chiari riferimenti ai pellegrinaggi che avvenivano durante il medioevo verso i grandi luoghi di culto (Gargano e Compostela).
Il primo gruppo di affreschi è posto in una piccola grotta a sinistra del cancello d’ingresso, ed è un ciclo mariano, databile agli inizi del XIV sec.
Il secondo gruppo realizzato all’interno della grotta, è costituito da una nicchia dedicata a San Giacomo di Compostela, e da una serie di affreschi murali dedicati a vari santi e martiri, datati posteriormente al primo e quindi tra XIV e XV sec.
Dal posizionamento di queste strutture, è possibile individuare una prima linea di intervento basata sul rispetto dell’uomo nei confronti degli elementi naturali con cui deve confrontarsi. Infatti, il primo gruppo sorge in una particolare angolazione che lo pone lontano dalla zona oggetto di dilavamento delle acque meteoriche, e là dove non era possibile, la roccia risulta leggermente lavorata proprio per evitare il gocciolamento sugli affreschi. Internamente, invece, l’edicola dedicata a San Giacomo è spostata leggermente verso destra rispetto l’asse perpendicolare della piccola abside naturale, forse per consentire alla luce proveniente dal rosone di colpire la nicchia in determinati periodi del giorno o dell’anno, fenomeno che attualmente non è verificabile a causa dell’ombreggiamento dell’altare moderno. In realtà anche la piccola abside risulta lavorata, infatti, analizzando i vari eremi del salernitano è possibile individuare una volontà comune nel voler riprodurre all’interno delle
cavità la tipica zona absidata delle chiese, a cui dare maggiore visibilità e centralità. Il 1538 è un anno importante per l’eremo di San Michele, infatti, avvengono due eventi significativi: l’acquisto dell’eremo da parte della Certosa di San Lorenzo e la sepoltura all’interno della grotta dell’abate Brancaccio. Fino al 1538 sono scarse le notizie riguardo l’eremo, probabilmente la sua storia è legata alla vicina Badia di San Nicola al Torone, che sorge verso l’XI sec. sul fianco nord del colle della Civita. Nell’Inventarium bonorium stabilium di Padula del 1546 la grotta è menzionata insieme con altre costruzioni e case tra i beni di San Nicola acquisiti dalla Certosa. Acquisizione che inizia nel 1538 con la bolla di Papa Paolo III ed è confermata nel 1550 da Giulio III, nella quale si specifica che l’uso della Badia era riservato a quei monaci di salute cagionevole che potevano trarre beneficio dall’aria salutare che vi si respirava, in quanto le zone a valle erano, a quel tempo, malsane ed infestate da acquitrini e ristagni paludosi. Il secondo avvenimento è la costruzione della tomba dell’abate della Badia di San Nicola Bernardino Brancaccio, lo stile della lapide è molto vicino alle opere realizzate in Certosa nei primi decenni del ‘500. Anche gli autori della tomba escogitano un piccolo espediente per immedesimare la muratura, che tampona il vano ricavato nella roccia, utilizzando nell’intonaco rustico una granulometria di pietre molto grande, ad imitare gli agglomerati di pietre che formano la roccia limitrofa. In questo modo il successivo formarsi della patina e il dilavamento delle acque hanno totalmente conformato l’intonaco con la roccia che lo circonda, limitando al massimo l’impatto dell’intervento. A partire quindi da questa data la grotta diventa dipendenza della Certosa. La prima traccia rilevante dell’Ordine riguarda la costruzione e l’affrescatura dell’altare con la conseguente realizzazione del coro nella piccola abside naturale. Gli affreschi vengono realizzati nel 1693, da .F. MichelAngelo Caputo Pitt(ore) (16)93, lo stesso affrescatore della Cappella delle donne nella corte esterna della Certosae forse anche degli affreschi del 1688 realizzati nelle cappelle laterali della Chiesa. Non vi sono notizie sull’operato di tale pittore, dal cognome è probabile che fosse un frate converso di origini padulesi che operava in ambito locale. Forse, contemporaneamente all’altare, viene realizzata anche la volta in mattoni, rivestita con pietre incastonate nell’intonaco per mitigare l’impatto visivo dei mattoni. Quest’intervento dimostra l’evoluzione del rispetto dell’uomo nei confronti dell’elemento naturale che lo circonda. L’uomo interviene per conformare la grotta ai dettami della controriforma con l’innalzamento dell’altare rispetto alla navata e la creazione del coro, mettendo in atto una sorta di metamorfosi che mira a modellare gli ambienti per renderli funzionali alle nuove esigenze liturgiche, tenendo conto allo stesso tempo delle caratteristiche intrinseche della grotta.
Il rivestimento della piccola volta a botte a protezione dell’altare è realizzato con la tecnica utilizzata solitamente nei ninfei per riprodurre le grotte , tra gli esempi più prossimi troviamo la fontana della spezieria e la grande fontana della Corte esterna nella Certosa.
La prima testimonianza bibliografica sull’eremo arriva quasi due secoli dopo, tra gli anni ‘70 e ‘80 del XIX sec. Francois Lenormant compie un viaggio tra Lucania e Puglia, cui poi seguirà un libro pubblicato nel 1883. Della sua visita abbiamo una breve descrizione dei resti di Cosilinum e dell’eremo, nella quale rileva la presenza di due cippi funerari, di origine romana, posti nelle mura dell’eremo, descrivendo però solo quello della coppia di sposi, di cui abbiamo già parlato in precedenza, mentre del secondo probabilmente si sono perse le tracce. E’ probabile che con la soppressione della Certosa nel 1866 l’eremo abbia vissuto un periodo di declino e abbandono, testimoniato anche da A. Sacco che visita l’eremo agli inizi del XX sec., descrivendolo in questi termini: “ Il tempo e l’abbandono di più secoli hanno rovinato gran parte delle costruzioni. Delle antiche fabbriche rimane avanti alla grotta una corte volta a mezzodì, ed in essa, a destra di chi entra, una camera quadra, priva di tetto e d’imposte”.
E’ quindi probabile che siano stati trafugati alcuni manufatti storici, tra i quali la stele funeraria indicata dal viaggiatore francese e l’originaria statua di marmo descritta in una visita pastorale del 1826. A partire dal 1914 fino al 1969, l’eremo viene gestito dal custode Ciro Verga, periodo durante il quale vengono realizzati una serie di interventi volti alla riqualificazione dei luoghi e della chiesa in abbandono. In particolare, ricordiamo la copertura del rifugio e della sagrestia, e la realizzazione dell’arco di rinforzo in cemento armato nel 1957. Quest’ultima opera ha sconvolto la visione originaria d’insieme della grotta, e probabilmente si rese necessaria a causa di un distacco di roccia avvenuto sopra il rosone, che provocò la perdita di stabilità all’arco naturale formato dalla roccia. Dalla documentazione è emerso che fu realizzato un primo progetto che prevedeva una struttura a doppio arco, che avrebbe compromesso maggiormente la spazialità interna , cui fece seguito il progetto poi realizzato ad arcata unica con pilastro in mezzeria.
Dal 1969, sotto la custodia di Gaetano Mennuto, vengono effettuati alcuni interventi di ripristino della cinta muraria e delle coperture. Nel 1980 viene rivestito l’altare in marmo ed ampliato con l’aggiunta di un volume superiore. Gli interventi realizzati nel dopoguerra dimostrano come l’opera dell’uomo si allontana dal rapporto con la natura ed è volta al solo recupero funzionale degli ambienti per garantirne la conservazione. La carenza di materiali e mezzi, e le problematiche relative al dopoguerra, purtroppo, non consentirono di eseguire il recupero del carattere spirituale e rurale degli ambienti interni dell’eremo. Sul finire degli anni novanta, tramite il programma Leader, vengono realizzati alcuni interventi di restauro sugli affreschi.
I lavori furono eseguiti solo esternamente, sul ciclo mariano, e su alcuni tratti della parete est all’interno della grotta. Attualmente l’eremo è di proprietà della parrocchia di San Michele Arcangelo ed è posto sotto la custodia del comitato di San Michele. In conclusione è possibile affermare che nell’eremo di Padula, pur mantenedo, all’esterno, il suo aspetto rurale quasi intatto, risulta compromesso, al suo interno, l’equilibrio tra architettura e natura elaborato fino al XIX sec.. Gli interventi degli ultimi decenni, con le modifiche delle aperture, le sopraelevazioni e l’utilizzo di materiali fuori contesto, hanno creato un’alterazione nella percezione originaria degli spazi. Sarà, quindi, fondamentale in un futuro intervento di restauro la consapevolezza di questa complessa evoluzione storica per riportare negli ambienti l’originario equilibrio tra costruito e naturale.